La neuroetica si occupa dell’impatto etico, legale e sociale delle neuroscienze, compresi i modi in cui la neurotecnologia può essere utilizzata per prevedere o alterare il comportamento umano e le implicazioni della funzione cerebrale per la società. La neuroetica si mette in discussione anche sulle questioni etiche che possono sorgere nella ricerca e nello studio delle neuroscienze.
Il campo della neuroetica è relativamente nuovo e le sue scoperte sono tutt’altro che consolidate. L’origine del termine neuroetica deriva da un neologismo emerso solo all’inizio del XXI secolo in ambito filosofico. Il termine è stato coniato dal medico di Harvard Anneliese A. Pontius nel 1973 in un documento intitolato Neuro-etica del camminare nel neonato per le abilità percettive e motorie. Ma lo scrittore William Safire è ampiamente accreditato di aver dato alla parola il suo significato attuale nel 2002, definendolo come «l’esame di ciò che è giusto e sbagliato, buono e cattivo riguardo il trattamento, la perfezione o l’invasione indesiderata e la preoccupante manipolazione del cervello umano.»
La neuroetica si propone principalmente di indagare l’attività cerebrale di un soggetto posto di fronte ad un compito o task valutando la capacità di decisione morale.
La ricerca nelle neuroscienze dimostra che il cervello è progettato per decidere il come e il perché le persone prendono decisioni morali. In effetti, le neuroscienze spiegano che una rete di varie regioni del cervello è costantemente coinvolta nel processo decisionale morale.
Quindi, mentre l’etica e la moralità erano una volta esclusivamente di competenza di filosofi e teologi, la ricerca attuale e futura includerà le neuroscienze e gli studi dei processi decisionali del cervello.